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Il valzer delle multinazionali (Antonio Ferrentino)

Multinazionali sempre molto attive nel mercato. C’è chi compra e chi vende. Logica conseguenza delle M&A (fusioni e acquisizioni). In quasi trent’anni, l’Italia ha rappresentato un boccone prelibato per le multinazionali estere. Le operazioni degli stranieri nel nostro Paese sono state 2.614. Ma noi non siamo stati da meno: 2.252 le transazioni italiane nel mercato estero.
Negli ultimi anni, però, si sta registrando una tendenza particolare. La cessione di molti brand italiani precedentemente acquistati da gruppi stranieri. Si pensi alla svizzera Nestlé, che ha ridato completa italianità a marchi come Buitoni, Vismara, Motta-Alemagna, Condiriso, Acqua Claudia; oppure alla effervescente Ferrarelle, passata dalla francese Danone al gruppo Lgr della famiglia Pontecorvo-Ricciardi; la spagnola Sos che ha ceduto Olio Dante e Bertolli; e Campari che ha acquistato Cinzano dall’inglese Diageo; con una lista che continua ancora.
Un processo di “decolonizzazione” più marcato nell’agroalimentare, settore nel quale negli ’80 e ’90 si è verificato un gran numero di acquisizioni. Ma perché ciò accade? Perché affermati gruppi multinazionali decidono di liberarsi di marchi altrettanto importanti? Franco Masera – presidente di Kpmg advisory – intervistato da Corriere Economia, afferma che «le multinazionali non hanno interesse ad investire su brand che non siano globali. Cedere un marchio locale è come fare un po’ di pulizia, anche perché il mercato italiano nel settore del "consumer good" è considerato saturo. Per un imprenditore locale, invece, è l’occasione per comperare un bene che tre anni fa sarebbe costato tre volte tanto» Per cui, «se c’è un momento giusto per far tornare in Italia marchi rilevati in passato da multinazionali è questo». Alle imprese multinazionali non conviene investire su marchi che non abbiano una connotazione internazionale. Inoltre, rispetto ad altri paesi, l’Italia paga anche svantaggi competitivi. Lungaggini e lentezza burocratiche ne sono una causa. La carenza di infrastrutture – si considerino le strade poco scorrevoli che ostacolano il trasporto delle merci – rallentano notevolmente l’afflusso di investimenti. Tra i fattori che pesano di più c’è il costo delle utilities (elettricità e gas: l’Italia è tra i paesi più costosi). Ulteriore nota dolente, il fisco: in questo caso a pesare non è tanto il carico fiscale, quanto l’incertezza della decisioni in materia. Forse anche per queste ragioni, siamo passati dal record di acquisizioni estere in Italia del 1990 (188 operazioni), al trend negativo di 38 acquisizioni nel 2009. A dire il vero, a lamentarsi sono anche le Pmi nostrane, che denunciano un’imposizione fiscale troppo elevata ed un’eccessiva burocrazia. Inevitabilmente, a pagarne è la mancanza di competitività internazionale delle Pmi italiane, che nell’internazionalizzazione hanno un atteggiamento di più basso profilo rispetto agli altri competitor. Infatti, solo il 22% delle nostre piccole e medie imprese ritiene che l’internazionalizzazione sia una leva importante su cui scommettere. I rischi sono molti, perché prima di ogni cosa è necessario evitare pericoli di marginalità nella scelta delle decisioni d’impresa.
Nonostante tutto, c’è da dire che i numeri non sono di poco conto. Infatti, le imprese italiane partecipate dall’estero sono 7.152, controllate da 3.961 società investitrici. Cifre, che tradotte in dati occupazionali, vogliono significare 853.000 lavoratori, di cui 520.000 nell’industria e oltre 100.000 nel commercio all’ingrosso. Per un fatturato totale di 429 miliardi di euro. La portata degli IDE (investimenti diretti esteri) – che sono un pilastro fondamentale del sistema multinazionale – rispetto all’intera occupazione interna è pari al 9,6%, mentre relativamente alle imprese con 20 o più dipendenti è pari al 14, 1 %. A dispetto di ciò, si torna presto al punto di partenza e a quanto si diceva prima, visto che questi sono i dati più bassi d’Europa. Un esempio è la Spagna, dove il 40 per cento del PIL è frutto delle attività delle multinazionali, mentre in Italia si parla di una quota pari al 16 per cento.
Comunque, nella struttura produttiva del nostro Paese convivono gruppi multinazionali e una miriade di Pmi. Se ne contano 4,4 milioni. E la concorrenza tra paesi europei per attrarre investimenti produttivi è molto serrata. Quindi, in virtù di questi fenomeni di delocalizzazione, per riacquistare giusta competitività è necessario accelerare i processi di modernizzazione e sburocratizzazione della nostra economia. Favorendo anche incentivi fiscali e agevolazioni nel settore della Ricerca & Sviluppo. Le nostre imprese dovranno avere la capacità di mantenere competitivi i marchi rilevati. Ciò richiede costi competitivi e sforzi di comunicazione ed innovazione. Magari fusioni e acquisizioni possono agevolare la crescita delle stesse aziende. Ma è una sfida che deve essere accettata, altrimenti si rischia il pericolo della marginalità. E in questi casi diventa fondamentale l’accesso al credito, settore che presenta numerose criticità a causa della volatilità dei tassi e delle note difficoltà degli istituti bancari. Con le diverse forme di finanziamento che assumono un ruolo cruciale. Inoltre, così come accaduto altrove (vedi Stati Uniti), anche in Italia il private equity – fondi chiusi che investono in capitale di rischio delle imprese – può costituire un modo molto efficace per trovare risorse imprenditoriali utili allo sviluppo delle imprese.

Antonio Ferrentino - Economics
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